Penso dunque sono, in un’altra lingua

Aggiornato: 12 Marzo 2023

Penso dunque sono, in un'altra lingua

Penso dunque sono …

Penso dunque sono … in una lingua diversa: riflessioni a margine della mia esperienza di immigrazione.

C’è un fil rouge che lega questo post all’articolo Intelligenza rispettosa e multiculturalità (clicca qui, quando vuoi leggerlo).

Nel post precedente, ho condiviso due importanti insegnamenti:

  • il primo riguarda l’indiscussa forza delle parole: possiamo, con le parole, appunto, portare inverno, nuvole e nebbia nelle nostre vite, ma possiamo anche portare estate, ciel sereno e orizzonti limpidi; a noi la scelta
  • il secondo insegnamento invece riguarda i colpi bassi che la vita ci riserva: nessuna avversità sarà mai in grado di abbatterci se la fede profonda sarà in noi stessi, nell’incrollabile speranza in un futuro migliore, nell’ardente desiderio di evolvere, nell’inscalfibile volontà di esplorare

Penso dunque sono … inizia proprio da queste due idee cardine, rafforzate dalle parole del grande scrittore russo:

Se vuoi essere rispettato dagli altri, la cosa più grande è rispettare te stesso. Solo in quel modo, solo con il rispetto di te stesso tu obblighi gli altri a rispettarti.

Fëdor Dostoevskij

Una scelta personale

Noi, esseri umani, abbiamo una radicata tendenza a costituirci in gruppi e per farne parte è necessario poter dimostrare di appartenervi.

Il livello di integrazione che vogliamo raggiungere quando decidiamo di vivere in un posto diverso dal Paese di nascita è una scelta personale: vogliamo curiosare in e contaminarci con la cultura di accoglienza oppure decidiamo di riproporre, lontani dalla nostra patria, le peculiarità della cultura di partenza.

Questa è una scelta, i cui effetti si possono notare a breve e lungo termine: sul modo di essere, comportarsi e relazionarsi.

È, naturalmente, una scelta che influisce fortemente anche sul percorso di carriera che si vuole, se si vuole, intraprendere nella nuova cultura in cui siamo approdati per scelta, bisogno o curiosità.

Faccio il badante

Faccio il badante ed è difficile accettarlo, persino a denti serrati.

Nella primavera del 2003, ancora abitante irregolare nel profondo sud italiano e “volenteroso” lavoratore di mestieri che non avevo mai né fatto, né immaginato di fare, mi misi a cercare qualcosa che rilegasse il mio Io rumeno al mio nuovo Io italiano.

Erano i tempi in cui venivano regolarizzati gli extracomunitari impiegati nelle famiglie italiane per lavori di cura e assistenza domiciliare diurna e notturna. Era quello che facevo, oltre a lavorare, sempre clandestinamente, in una segheria per meno di tre euro all’ora.

All’epoca, la comunità rumena in Italia aveva raggiunto e superato il milione di persone e la stragrande maggioranza faceva proprio questo lavoro. Come me, senza documenti.

Assistevo, la notte, il padre anziano di una squisita famiglia di medici di Caltanissetta a cui arrivai per un inaspettato passaparola di amici degli amici degli amici della famiglia stessa.

Facevo il badante, proprio nel periodo in cui questa parola stava entrando nel lessico italiano come neologismo, anche se di fatto non fu un vero neologismo. Della parola badante, e di come, quando e perché entrò nella quotidianità lessicale italiana se ne occupa con massimo rigore documentaristico questo articolo dell’Accademia della Crusca.

La famiglia nissena mi accolse con rispetto e calore come se fossi uno di loro. Come un figlio, anche se di figli ne avevano due: Sofia e Giacomo, vispi, adorabili.

Nuova cultura, nuove parole

Io parlavo un modestissimo italiano che imparavo con molto zelo da autodidatta, e loro, tutti e quattro insieme, mi diedero una bella mano, oltre ad alcuni testi scolastici che conservo ancora come caro ricordo di un tempo particolarmente intenso: l’alba della rieducazione della mia educazione.

Fu il tempo in cui, a causa del terribile terremoto di altissima intensità, crollarono le strutture più intime del mio Essere: valori e credenze, fiducia e stima.

Che potevo fare, per andare avanti, nonostante tutto, nonostante tutti?

Iniziai la ricostruzione: nuova lingua e nuova cultura, nuovo pensiero e nuovo comportamento.

Loro – la famiglia nissena– mi fecero scoprire tante belle cose della Sicilia e non solo, in quell’anno e poco più in cui fui badante, ma anche figlio, nipote e cugino. Uno di loro, insomma.

Per esempio, sono stati loro a farmi conoscere il significato della parola luculliano che usavo quando potevo con orgoglio e non nascosta pedanteria.

E anche l’uso del partitivo “ne” (Vuoi dell’acqua? Sì, ne voglio!), e le squisite melanzane al sugo, l’amaro siciliano Averna, nisseno autentico e che festa per il palato!

Sono stati loro a darmi i primi assegni bancari e a farmi conoscere l’indimenticabile fragranza Missoni.

Il cocktail di emozioni

Durante quei mesi, vissi un cocktail di emozioni davvero particolare: ammirazione mescolata a un profondo dolore. Ammirazione per come la famiglia, tutta, accoglieva quella devastante tristezza dell’essere diventata … invisibile in pochi giorni.

E dolore perché in quel drama c’ero anche io, vicino, troppo vicino.

Ancor’oggi mi vengono i brividi quando ricordo i volti addolorato dei figli, dei nipoti e dei parenti che dicevano: “Papà sono io, tuo figlio, mi riconosci?”“Papà, siamo noi, siamo venuti a trovarti”.

Le domande si sbriciolavano sotto il peso di un assordante silenzio.

Il papà non rispondeva.

Il suo sguardo rimaneva fisso, prigionero di un punto lontano nell’insondabile buio che solo lui poteva vedere …

Fu il primo incontro ravvicinato e di straordinario sconvolgimento emotivo con quella insidiosa malattia provocata dal morbo di Alzheimer.

Il distinto signore, il papà di questa splendida famiglia siciliana che ho conosciuto per un sorprendente passaparola di amici degli amici degli amici della famiglia stessa, era praticamente scomparso in meno di due settimane dopo che avevo preso servizio.

Di lui rimase il corpo, mentre sulla sua mente calò il sipario. Ancora giovane per gli standard siciliani, nella primissima giovinezza della sua terza età.

Non era deceduto, era scomparso nel senso che fu risucchiato inesorabilmente dalle tenebre di una malattia che spegne, con ferocia crudeltà e in poco tempo, la luce della mente. Lasciando, di fatto, il corpo in balia del vuoto. Del nulla. Un corpo – ed è davvero terribile – senza spirito.

Un foglio A4 e una nuova vita

Fui regolarizzato nella primavera del 2003. Era un marzo mite di una primavera molto speciale: segnava il mio ritorno, con diritti e doveri, tra gli abitanti di un Paese.

Ridiventavo, dopo 18 mesi e grazie a un foglio A4 su cui era stampato in maiuscolo “Permesso di soggiorno”, un cittadino con carta d’identità e patente di guida italiane. Per festeggiare l’evento, mi regalai un libro: un dizionario bilingue, inglese-italiano.

Avevo avuto la parola della famiglia già da alcuni mesi prima della regolarizzazione effettiva.

Adesso, iniziai a guardare al futuro con rinnovata speranza. Adoravo la famiglia nissena, avevo la mia vera famiglia in Sicilia, parenti e molti amici siciliani.

Ma il mio indomabile spirito, la mia anima vagabonda, la mie mente vulcanica avevano bisogno di nuove energie, di nuovi orizzonti, di nuove sfide.

Avevo bisogno di nuovo vigore per continuare a ricostruire i frantumi in cui mi fui sgretolato al mio arrivo nel Bel Paese.

Lo sapevo: non appena fossi entrato nel possesso dei documenti che regolarizzavano il mio statuto di immigrato clandestino, mi sarei messo di nuovo in viaggio. Mi chiedevo come farlo sapere alla mia nuova famiglia senza urtare i loro sentimenti.

Lottavo contro un paralizzante senso di colpa. Li avrei traditi, in un certo senso, ma loro erano capaci di comprendere, mi dicevo.

Così è stato. Dicci se vuoi andare perché stai male qui, con noi! Se, invece vuoi andare perché aspiri a riprendere gli studi, allora vacci e noi ti auguriamo un grosso in bocca al lupo! mi dissero.

Che bella famiglia stavo lasciando … che nobiltà di animo in queste persone. Quando ne avrei incontrato altre, come loro?

In cerca di un posto, di una città

Dopo alcuni mesi in cui di notte facevo il badante e di giorno lavoravo come operaio, nei pochi ritagli di tempo che mi rimanevano andavo in un Internet Café di Canicattì.

Uno spazio con una decina di computer gestito da una giovane famiglia del posto.

Diventammo amici e a poco a poco anche loro mi fecero scoprire tante altre belle cose della Sicilia e non solo.

A loro lego, perché me l’hanno fatta ascoltare per la prima volta, L’emozione non ha voce di Adriano Celentano. La colonna sonora della nostra storia d’amore, mi dissero, mentre mi mostravano emozionati le foto del loro matrimonio.

Un tardo pomeriggio di un fine settimana, di ritorno da una pineta sul mare agrigentino, mi chiesero: Ti piacciono le cozze? Le co … che? chiesi. Le cozze, con gli spaghetti, mi risposero.

Mi spiegarono pazientemente cosa fossero e capii che parlavano di midie, quella specie di “scoică”, dissi tra me e me, in rumeno.

Dunque: le cozze sono le midii, mentre le vongole sono le scoici, ripetei, per fissare una, anzi due nuove parole nella mia nuova lingua.

Non le avevo mai assaggiate.

Stasera vieni da noi, dissero. A cena, spaghetti alle cozze, aggiunsero. Detto, fatto. Così assaggiai – e che squisitezza! – per la prima volta a cena, a casa dei miei cari amici Angelo e Rosalia, gli spaghetti alle cozze. Ci furono altre cose che scoprii grazie a loro, il tempo che passammo insieme.

Da allora, anche se ci separa praticamente l’Italia intera continuiamo a coltivare una profonda amicizia. Nella dimensione di una vita ci siamo visti per poco tempo eppure abbiamo costruito e mantenuto un rapporto di stima e fiducia.

Là, nel loro Internet Café, in quella mia prima primavera siciliana (e italiana) cercavo online la nuova casa.

Dopo tre mesi in cui scandagliai l’Italia intera presente sul web, le sue università e le città che mi facevano sognare ad occhi aperti, la trovai.

Su Internet, dicevo, quasi per caso.

Aveva tutto quello che occorreva: il clima simile a quello della mia città di nascita, un corso di laurea stimolante che mi avrebbe fatto viaggiare tanto. Era nel cuore dell’Europa, era di media dimensione, sufficientemente lontana dal torrido Sud (le estati in Sicilia sono caldissime, le due che ho vissuto mi hanno messo a dura prova …) e sufficientemente vicina ai posti che popolavano la mia mente dai tempi dell’adolescenza: Londra, Parigi, Venezia, Vienna per citarne solo alcuni.

Vicina a … Londra? Non proprio, ma comunque più vicina rispetto a Canicattì, dove abitavo prima 🙂

Ricomincio tutto, daccapo

Ricomincio tutto daccapo

Dal profondo sud ero pronto a sbarcare nell’estremo nord del Bel Paese: la mia nuova casa, mi convincevo sempre di più, era là, incastonata tra le maestose Dolomiti. La mia nuova casa diventò Trento.

Lì, nel capoluogo trentino, e con quel foglio formato A4 in tasca – il mio permesso di soggiorno – avrei ripreso gli studi universitari. Avrei ricominciato tutto daccapo.

Infatti, archiviai i due anni di Giurisprudenza fatti in Romania e mi iscrissi alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento.

Era settembre 2003. Stavo per compiere due anni dal mio arrivo in Italia. La mia nuova vita iniziava con un corso di laurea che mi avrebbe impegnato per i successivi tre anni e permesso di rispolverare e approfondire le due lingue – inglese e francese – che stavo studiando da tempo.

L’immatricolazione al corso di laurea triennale in Mediazione linguistica per le imprese e il turismo, da poco attivato e molto richiesto sancì l’inizio di un periodo di profonda crescita e trasformazione, personale e professionale.

Proseguì, con meno convinzione, ma tant’è, con una laurea specialistica in Scienze linguistiche per le imprese, la comunicazione internazionale e il turismo. Prima laurea, di tre anni in tre anni, la seconda di due anni, in quattro.

Anni indimenticabili

Vissi anni intensissimi, soprattutto i primi tre, della laurea triennale. Sono stati anni popolati da belle persone dai quattro angoli del pianeta, da straordinari viaggi e amicizie, da emozioni indimenticabili. Tre anni impegnativi in cui ho fatto ciò che la stragrande maggioranza degli studenti fa, appena mollati i banchi delle scuole medie superiori: studiano e scoprono, lavorano e si divertono. Esplorano, amano. Ci provano, cadono e si rialzano.

Ero a cavallo dei miei trent’anni, inserito in un ambiente universitario stimolante, in una città vivace, anche se un po’ scettica e diffidente. Comunque, una città tra le migliori per qualità della vita, dell’ambiente e dell’educazione universitaria.

Attorno a me un popolo di ventenni. Per un po’ mi sentii fuori posto: ero appena arrivato in città, con un borsone pieno di sogni e speranze, avevo pochi soldi e non conoscevo nessuno.

Ero affascinato dalla nuova città, dai posti che iniziavo a frequentare e, a dire il vero, anche un po’ spaesato.

Rimediai presto: mi trovai un lavoro come lavapiatti in un ristorante i cui titolari – guarda caso – provenivano da Caltanissetta. Iniziai a frequentare la biblioteca universitaria e conoscere nuove persone: studenti, come me, entusiasti e un po’ spaesati.

Con l’anima di un ventenne nel corpo di uno studente trentenne, mi ritrovai ad affrontare dubbi e paure, lavori precari e impegni di studio, nuove scoperte della cultura di accoglienza, nuovi amici e nuovi posti in una parte dell’Italia, in una parte del mondo in cui non avrei mai pensato di vivere, studiare e lavorare.

Il tutto con un’insaziabile curiosità e con una forte volontà di mettermi alla prova, di scoprire e scoprirmi.

Voglio indietro le mie parole

In questo modo, impegnativo e divertente allo stesso tempo, volevo dimostrare e dimostrarmi di poter far parte a pieno titolo del nuovo gruppo. Volevo diventare italiano e appartenere all’Italia.

E volevo riavere indietro le mie parole.

Quelle sì che mi mancavano! Volevo riconquistarle, in una nuova lingua che a poco a poco – ma ancora non me ne rendevo conto – sarebbe diventata la mia seconda madrelingua.

Un ardente desiderio di appartenenza alla nuova cultura di accoglienza guidava tutto ciò che facevo durante e dopo gli anni universitari.

Volevo comprendere in profondità la nuova cultura e il luogo dove avevo scelto di vivere rispondeva perfettamente al mio desiderio.

Durante il mio percorso universitario, così come anche prima e dopo, mi sono totalmente immerso nella cultura e nella civiltà italiana.

Studiavo la lingua da autodidatta e leggevo qualsiasi cosa mi capitava tra le mani: giornali, riviste, libri, opuscoli e volantini pubblicitari; guardavo i film e la TV e ascoltavo la radio in italiano.

Infatti, a differenza delle altre due lingue straniere, inglese e francese, in cui scrivo e parlo correntemente, non ho mai seguito un corso di lingua e non ho mai conseguito una certificazione che attesti formalmente il mio livello linguistico in italiano. Parlo, scrivo, sento e vivo nella lingua di Dante da imbucato 🙂

Nei primi anni del nuovo millennio, l’Internet era meno diffuso e gli smartphone non esistevano.

Da Trento, per chiamare in Sicilia o in Romania, usavo ancora le schede per i telefoni delle cabine telefoniche, scomparse poi nel giro di pochi anni.

Per accedere all’Internet, mi recavo in quella che mi sembrava all’epoca uno spazio futuristico: l’aula Internet della Facoltà di Lettere. Uno dei primi e concreti privilegi di essere tornato sui banchi di scuola. Anzi, sui banchi di una delle più prestigiose università italiane.

Ricostruire l’autostima andata in frantumi

Le mie conquiste linguistiche proseguivano e alimentavano come poche altre cose la mia autostima.

Approfittavo di qualsiasi occasione per parlare nella mia nuova lingua, chiedevo di essere corretto quando usavo un termine in modo errato, frequentavo quasi esclusivamente persone che parlavano italiano.

Anche con alcuni dei miei connazionali incontrati dentro e fuori dalle aule universitarie preferivo parlare in italiano.

Coglievo, insomma, tutte le opportunità che la mia nuova vita, la mia nuova quotidianità universitaria mi offriva per rafforzare l’espressione in una lingua che – seppur bella e soavemente melodiosa per l’inestimabile cultura e civiltà che veicola – non avrei mai pensato, né immaginato, fino a pochi anni addietro, di dover imparare.

Poi, all’improvviso, nell’autunno del 2005, all’inizio del terzo anno di università, è successo un fatto straordinario.

Tutto a un tratto, dopo quattro anni di immersione totale nella lingua e nella cultura italiana, ho cominciato a pensare direttamente nella nuova lingua.

Cosa facevo prima? Ascoltavo in italiano, traducevo mentalmente ciò che sentivo in rumeno, poi pensavo in rumeno, traducevo in italiano, e, infine, rispondevo sempre in italiano. Il tutto in pochi secondi.

Penso dunque sono … in un’altra lingua

Cogito, ergo sum! Penso dunque sono, parola di Cartesio. In un’altra lingua, aggiungo.

All’improvviso, il mio cervello aveva smesso di tradurre i messaggi che mi arrivavano in italiano e iniziato a costruire pensieri direttamente nella lingua della mia nuova cultura di accoglienza.

Fu una notevole conquista. Come se di punto in bianco avessi cambiato un abito parecchi numeri più grande con uno su misura.

Un sarto invisibile prese le nuove misure di quella che stava per diventare la mia seconda madrelingua e mi fece un abito linguistico su misura, tutto parole, pensieri, cultura e civiltà italiana.

Col passare degli anni riacquistai quella sicurezza linguistica – in gran parte responsabile di una sana autostima – propria di un parlante madrelingua che persi con il mio arrivo in Italia e che è poi andata, a mano a mano, a rafforzarsi fino a sommergere quasi completamente la mia madrelingua rumena.

Penso dunque sono … immerso completamente nella nuova cultura di accoglienza.

Dopo diversi anni dal mio arrivo in Italia, realizzo di essere arrivato dritto a un punto di … svolta.

Ma questa è un ‘altra storia, che ti racconto qui, in questo post.

Per ora è tutto, un abbraccio e a presto.

Lucian

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