Come ritrovare sé stessi

Aggiornato: 21 Luglio 2023

Come ritrovare sé stessi

Come ritrovare sé stessi

Come ritrovare sé stessi, con la magia di una storia: la storia dell’elefante incatenato.

Scopri chi sei e non avere paura di esserlo.

Mahatma Gandhi

Quando hai pronunciato l’ultima volta “Non posso”, “Non ci riesco”, “Non ce la faccio”?

Rispondi con sincerità, non lo dico a nessuno, giurin giurello … 😉

Fin da piccoli, ci è stato insegnato di non rispondere a una domanda con una domanda, ma di fronte ad espressioni così categoriche c’è solo una risposta dignitosa da dare ed è sotto forma di domanda:

Ne sei sicuro?

Più delle volte, a questa domanda, la risposta è:

Sì, so come sono fatto

oppure

Sì, mi conosco molto bene

A quel punto la conversazione sembra volgere alla fine. Di fronte a così tanta … tenera certezza non c’è molto da fare.

Del resto …

Nessuno può convincere un altro a cambiare. Ciascuno di noi è il custode di un cancello che può essere aperto soltanto dall’interno. Noi non possiamo aprire il cancello di un altro, né con la ragione, né con il sentimento.

Marilyn Ferguson

Eppure, un modo c’è, forse. Un tentativo, almeno, un piccolo sforzo di “fermarsi” e curiosare dentro di sé, da vicino.

Quella che stai per leggere è una bella storia, ricca di insegnamenti, che può essere di aiuto.

Leggila attentamente.

La storia dell’elefante incatenato

C’era una volta un bambino appassionato di circo.

Guardato con gli occhi da bambino, il circo rappresenta un posto speciale: un luogo magico, incantevole.

Un posto con tanti animali, acrobati e pagliacci che rendono straordinario lo spettacolo circense.

Il bambino guardava tutti con molta curiosità. Gli animali però erano quelli che suscitavano la sua più grande meraviglia.

Tra di essi ce n’era uno che lo incuriosiva davvero tanto.

Era l’elefante, un animale imponente per la sua forza fisica, il suo peso e la sua grandezza.

Durante gli spettacoli quel bestione faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune.

Dopo il suo numero, e fino a un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato a un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle grosse zampe.

Il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri.

Anche se la catena era grossa e forte, al bambino pareva ovvio che un animale in grado di sradicare un albero potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.

Perché non lo faceva era davvero un bel mistero.

Che cosa lo teneva legato? Perché non scappava? si chiedeva il bambino.

Ancora fiducioso nella saggezza dei grandi pose loro queste domande. Qualcuno gli spiegò che l’elefante non scappava perché era ammaestrato.

Allora ribatté: “Se è ammaestrato, perché lo incatenano?”

La storia dell'elefante incatenato

Nessuno fu in grado di dargli una risposta coerente.

Il bambino crebbe e con il passare del tempo dimenticò il mistero dell’elefante e del paletto. Gli tornava alla mente raramente e solo quando si imbatteva in altre persone che si erano poste la stessa domanda.

Poi, un giorno, non senza sorpresa, scoprì che qualcuno era stato abbastanza saggio da trovare la risposta giusta: l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.

A quel punto chiuse gli occhi e immaginò l’elefantino indifeso appena nato, legato al paletto. Lo vide provando a spingere, a tirare e sudare mentre tentava di liberarsi. Ma nonostante gli sforzi non ci riuscì. Il paletto era troppo saldo per lui.

Continuò a immaginarlo addormentandosi sfinito e il giorno dopo provarci di nuovo, e così il giorno dopo e quello dopo ancora. Finché un giorno, un giorno terribile per la sua storia, l’elefante accettò l’impotenza rassegnandosi al proprio destino.

L’elefante enorme e possente che forse anche tu hai visto al circo almeno una volta non scappa perché crede di non poterlo fare. Gli è rimasto inciso il ricordo dell’impotenza sperimentata subito dopo la nascita. Non è mai più tornato seriamente su quel ricordo, è questo è davvero triste. Non ha mai più messo alla prova la sua imponente forza. Mai più, purtroppo.

Mi colpì molto quando lessi per la prima volta la storia dell’elefante incatenato. Nella sua semplicità e drammaticità parla di tutti noi, a ciascuno di noi.

Una storia che parla di tutti noi

Siamo un po’ tutti come l’elefante del circo: andiamo in giro incatenati a centinaia di paletti che ci tolgono la libertà.

Andiamo avanti per i sentieri della vita pensando che “non possiamo” fare un sacco di cose semplicemente perché una volta ci avevamo provato e avevamo fallito.

Allora abbiamo fatto come l’elefante, abbiamo inciso nella memoria questo messaggio:

Non posso, non posso e non potrò mai.

Siamo cresciuti portandoci dietro il messaggio che ci siamo trasmessi da soli, perciò non proviamo più a liberarci del paletto.

Quando a volte sentiamo la stretta dei ceppi e facciamo cigolare le catene, guardiamo con la coda dell’occhio il paletto e pensiamo: “Non posso e non potrò mai.”

Naturalmente, non possiamo fare tutto ciò che ci passa per la testa, ma con buone probabilità possiamo fare molto di più di quello che pensiamo di essere capaci.

Se solo decidessimo di spezzare le catene e levarci di dosso quel senso di impotenza appresa (in inglese learned helplessness).

È quello che succede anche a te?

Vivi condizionato dal ricordo di un té stesso che non esiste più da parecchio tempo perché nel frattempo è cresciuto con l’idea che non ce la fa e non ce la farebbe mai?

Se così è, c’è solo una cosa da fare:

Provaci!

L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo. Provare mettendoci tutto il cuore.

Tutto il tuo cuore.

Un abbraccio,

Lucian

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